Si ritorna a viaggiare nonostante tutto e con tutte le restrizioni previste, ma finalmente si ritorna ad esplorare luoghi che fanno parte dell’anima.
Prima della partenza sento un crescente senso di smarrimento e di ansia, di angoscia che mi opprime il petto. Mai sentito così forte in occasione di un viaggio. E’ vero però che le separazioni mi fanno sempre più male, saranno gli anni che passano e che ti fanno sentire sempre più vicino alle persone con cui condividi quotidianamente la vita, o sarà questa pandemia che ha tolto sicurezza anche a noi viaggiatori “seriali”.
Ma dura poco, meno male, il tempo di salire sul bus e che quest’ultimo si metta in moto ed ecco che il respiro ritorna, l’anima si arrende, e il viaggio può iniziare con il cuore aperto e con il pensiero a chi ci è sempre vicino. Viene la notte e un sonno a tratti. Il bus non è molto confortevole, c’è poco spazio tra i sedili, non è possibile ricaricare il cellulare né tantomeno c’è il wi-fi. E in periodo storico in cui conserviamo tutto nei nostri cellulari, compresi i famosi o famigerati green pass e i moduli on line da compilare per entrare in alcuni paesi, questo è un grosso handicap.
Non mi sono mai fidato dei cellulari, e porto ancora con me, soprattutto in questo tempo pandemico, alcune copie sia del green pass che del formulario compilato per l’ingresso in Croazia, nonché le prenotazioni degli alberghi, che potrebbero richiedermi al confine come dimostrazione della residenza temporanea.
Il bus effettua la prima fermata: Firenze.
I rudi e veraci autisti croati non ci fanno scendere neanche per sgranchire le gambe. Poi si perdono sull’autostrada nella ricerca del punto di scambio di Villa Costanza fuori Firenze, borbottano tra loro, alla fine riescono a risultare anche simpatici, sembrano davvero molto uniti, e bisogna esserlo in questo lavoro così usurante. La fermata successiva è Bologna, anche qui un veloce stop and go, la mascherina comincia a dare fastidio, dodici ore di viaggio sono lunghissime, il bus è semi vuoto e fatalmente ogni tanto finiamo per abbassarla. Siamo esseri umani e viaggiare in questo modo è quanto di più inusuale possa esserci.
Prima di Trieste ci fermiamo in un autogrill, albeggia, divoro un cornetto e bevo di corsa un caffè, è ora di ripartire.
La fermata successiva sarà la bella ed “europea” Lubiana.
Il confine tra Italia e Slovenia, per anni un confine difficile, appare all’improvviso tra i filari degli alberi che costeggiano la strada.
Quante volte ho attraversato questo confine?
E’ stato, quello tra Italia e Slovenia, per anni, la mia prima porta sui Balcani del Sud. Fernetti, Sezana, poi Nova Gorica e Salcano, Casa Rossa a piedi da Gorizia, e per finire Muggia in piena pandemia, per sperimentare ancora il confine.
Confini attraversati in momenti diversi negli ultimi sedici anni.
Pratiche di attraversamento del confine che hanno accompagnato le mie ricerche negli ultimi tempi.
Il confine, la sua percezione, il suo esserci anche quando non è segnato, è sempre parte di noi. Anche il nostro corpo è un confine, siamo noi a decidere chi può attraversarlo, chi può avvicinarsi, sfiorarlo, abbracciarlo, amarlo. Non esiste un corpo senza confini, se non un corpo astrale. Siamo confine ed esclusione dalla nascita, il confine è la nostra difesa e la nostra unicità. Le regole sulla permeabilità o meno del nostro confine fisico le decidiamo solo noi come farebbe uno Stato. Siamo confine, non dimentichiamolo, perché mai come in questo tempo pandemico l’abbiamo sperimentato.
Il bus corre verso Lubiana, la bella ordinata e asburgica Lubiana, la meno balcanica delle capitali della ex Jugoslavia, la più vicina all’Europa.
Oggi sarà solo un luogo di transito, ma per anni è stata il luogo da cui sono partito e da dove ho iniziato a costruire la mia rete di relazioni e ricerche. Da lì sono partito per seguire i sentieri e le memorie divise di diverse guerre, la prima, terribile e disumana, la seconda mondiale, la terza che la Slovenia ha soltanto toccato.
Il tempo di una foto alla stazione ed è già ora di ripartire, verso un nuovo confine.
Mentre lasciamo la capitale slovena rifletto su quelle che sono oggi le “pratiche” di vita in tempo pandemico. Osservo la gente nelle strade della città che si sveglia, quasi nessuno porta la mascherina, e la città è piena di cantieri come se abbia bisogno e necessità di rimettersi a nuovo di fronte ai tempi che cambiano.
Il confine tra Slovenia e Croazia è vicino, il tempo di chiudere gli occhi, ed è già quasi vero confine. Alla frontiera tra Italia e Slovenia, infatti, non c’era nessuno a controllare. Ma quello tra Slovenia e Croazia, seppure confine interno alla UE, è il limite dell’area Schengen, e quindi il confine esiste e si percepisce nella sua drammaticità.
Ci fanno scendere dal bus la prima volta, in fila ordinata distanziati attendiamo il nostro turno. Nessuno controlla i green pass, solo un controllo documenti. Così anche al posto di controllo croato, dove ancora una volta scendiamo e ci mettiamo in fila, qui però mi chiedono qualcosa in più, la destinazione. Zagabria gli rispondo, e ho con me la prenotazione dell’Hotel se possa servire.
Risaliamo sul bus, ancora una volta il tempo di chiudere gli occhi e siamo già nella periferia di Zagabria che dista poche decine di km dal confine.