Costretti a fuggire… ancora respinti
Ho iniziato a seguire la “Rotta Balcanica” percorsa dai migranti provenienti dalla Siria e dall’Asia, all’inizio del 2018 recandomi ad Assothalom un paesino di confine con la Serbia, dove il governo ungherese aveva iniziato la costruzione della prima barriera fisica dopo il crollo del muro di Berlino. Quanto visto in quei giorni mi ha spinto ad approfondire sempre di più quanto accadeva nei Balcani soprattutto sulla nuova “rotta”, quella bosniaca. E così nell’estate del 2019 sono riuscito ad arrivare fino al famigerato campo di Vucjak, ai confini tra Bosnia e Croazia riuscendo a filmare di nascosto l’ingresso del campo presidiato dai militari. Da allora la necessità di raccontare quanto accadeva è divenuta un impegno costante e l’incontro con gli amici della Fondazione Migrantes, con cui avevo già collaborato nella stesura di un saggio sui pensionati italiani in Bulgaria, mi ha dato l’opportunità di realizzare un reportage in cui racconto l’incrocio di differenti storie di migrazione in un contesto fragile come quello odierno della Bosnia Erzegovina, oggi quanto mai attuale. Vi invito a viaggiare tra i confini dove spesso si perde il senso dell’umanità, domandandovi, come fece Primo Levi, “se questo è un uomo”.
La rotta balcanica nello snodo della Bosnia Erzegovina
Per comprendere appieno cosa accade in Bosnia Erzegovina e quali siano le conseguenze sul sistema di accoglienza e la vita quotidiana dei migranti e residenti bisogna partire dall’analisi del processo di nation building nel paese. La Bosnia Erzegovina si presenta come uno Stato ancora completamente da costruire: la parcellizzazione del potere e delle funzioni finisce inevitabilmente per influire sulla gestione dell’intero sistema di accoglienza dei migranti che risulta ancora adesso del tutto insufficiente e dipendente quasi completamente dalle capacità organizzative dell’OIM, a cui è demandata la gestione dei Centri di Accoglienza Temporanea (RTC).
La situazione di maggiore difficoltà si vive al confine tra Bosnia e Croazia nelle città di Bihac e Velika Kladusa. Il gioco (the game), l’attraversamento del difficile confine tra Bosnia e Croazia, è il fine ultimo della carovana che attraversa la Bosnia. Bihac è una città ancora in cerca di una pacificazione rispetto al suo recente passato, e questo incide non poco sulla percezione dell’invasione di migranti e sulle politiche attuate, o che si tentano di attuare a livello regionale, e il lockdown non ha fatto altro che esasperare gli animi. Nei transit hubs, zone fragili, interstiziali e quindi soggette a continui mutamenti, viene esercitata una forte pressione sui network locali, spesso impreparati, e vengono a crearsi fenomeni di ipervisibilità.
Il lavoro di ricerca ha vissuto due fasi inevitabilmente influenzate dalla difficile mobilità seguita alle misure di contenimento del virus Covid-19 in Europa. L’elaborazione dei dati raccolti ha confermato in parte quanto proposto nella riflessione teorica, ma ha anche portato alla luce nuovi motivi di riflessione. In questo panorama, sono le nuove generazioni, i ragazzi nati subito dopo la guerra, quelli che tentano nuove strade verso la riconciliazione dei migranti di ieri con i migranti di oggi. Ancora una volta, è la città di Tuzla a distinguersi per la sua sensibilità nei confronti di chi fugge dalla miseria e dalle violazioni dei diritti.
Quel che emerge è un quadro di difficile lettura che, aggravato dall’emergenza Covid-19, potrebbe divenire sempre più drammatico. Rotta balcanica o rotta Europea? Non si tratta di una questione puramente semantica o di una sterile polemica giornalistica, ma di una riflessione che va diritta al cuore del problema, la costruzione dell’altro in contrapposizione all’Unione Europea. Attraverso un’asimmetria di poteri, infatti, l’Unione Europea autocostruisce la sua identità stigmatizzando la differenza con i Balcani (intesi in questo caso come “altri”).