Alcune volte per comprendere davvero cosa accade bisogna approssimarsi il più possibile ai luoghi e agli eventi, per comprenderne l’essenza e l’importanza.
Un breve ma intenso viaggio verso il confine tra pace e guerra seguendo la linea sottile che divide la Slovacchia dall’Ucraina.
BRATISLAVA: Hotel Avion, prima della partenza
Da quando questa assurda guerra, assurda come tutte, è iniziata, ho sempre avuto il desiderio di avvicinarmi il più possibile a quanto sta accadendo, e questo non per una morbosa curiosità, ma perché come sempre accade, non mi fido delle ricostruzioni giornalistiche e mediatiche che vengono proposte, e diventava era sempre più forte la necessità di vivere, seppure per pochi giorni, “in prossimità” di quanto sta accadendo.
A quasi un anno dall’inizio della guerra sul suolo ucraino, e con la prospettiva che duri ancora a lungo, e dinanzi ad un inverno che, come sempre si prevede freddo, nonostante il cambiamento climatico, era venuto il momento di andare a vedere di persona cosa significhi vivere il confine nel quotidiano, anche nei paesi di “accoglienza” e di frontiera, quei paesi del blocco di Visegrad che hanno dimostrato in questa occasione un’inaspettata apertura.
Tanto si è parlato della Polonia, anche per via dell’ultimo evento drammatico che ha portato alla morte di incolpevoli contadini (ma chi è veramente colpevole in una guerra?) in un innocuo e quasi insignificante villaggio di frontiera, o dell’Ungheria per la sua ambivalenza, mentre poco o nulla si è indagata la situazione che si vive quotidianamente in Slovacchia, altro paese di prima accoglienza dei rifugiati ucraini.
E allora anche per via di forti legami cementati negli anni con la terra slovacca, e di cui vi parlerò nel percorso, ho deciso di mettermi in gioco e iniziare un breve ma intenso viaggio verso il confine.
La Slovacchia ha tre posti di confine ufficiali sul margine che la divide dall’Ucraina, quello di Ubla/Malyj Breznyj, situato nel nord est nella regione di Snina e vicino anche al confine polacco, il valico di Vysne Nemecke/Uzhgorod, il più importante a livello strategico e per flusso di traffico, uno ancor più periferico a Velke Slemence/Mali Selmentsi prossimo all’unico varco ferroviario quello di Cierna nad Tisou. Da Bratislava ognuno di questi luoghi dista circa 5 ore più o meno di macchina.
Ma il primo incontro con la realtà che si vive quotidianamente avviene, nel mio caso, fin dalla prima sera, e in modo decisamente casuale.
Per un cambio di piani dell’ultimo minuto, infatti, mi vedo costretto a prenotare al volo un albergo prossimo all’aeroporto di Bratislava. La mia scelta cade, per via della sua economicità e la sua vicinanza all’aeroporto (appena 1 km) su un albergo old communist style, l’Hotel Avion.
Devo ammettere che ho una sorta di fascinazione per questi alberghi di matrice sovietica e quando posso mi piace passare una notte al loro interno in ascolto delle mille storie che queste mura di cemento sembrano raccontare.
Al mio arrivo noto subito qualcosa di peculiare, le informazioni sono scritte tutte in ucraino e poi in slovacco, non c’è nessuna indicazione in inglese ad esempio.
La ragazza alla reception, non parla slovacco, lo capisco subito. Per quanto non sia capace di parlarlo, infatti, lo comprendo abbastanza, e in realtà dopo un ascolto più attento mi sembra proprio che parli ucraino o russo, lingue di cui amo la musicalità e che in un certo qual modo mi sono familiari.
Cerchiamo di intenderci in qualche modo, anche se con qualche difficoltà e alla fine mi passa al telefono una sua amica, capisco che le dice, stavolta in slovacco, che c’è un italiano e che ha difficoltà nel farsi capire. La ragazza che mi passa al telefono parla inglese e riusciamo ad intenderci anche sulla colazione.
Quando prendo l’ascensore, tutto mi ricorda quando pernottai per la prima volta a Bratislava nel lontano 1992 all’Hostel Bernolak, uno studentato che si apriva all’esterno nei periodi estivi e che definire “essenziale” era un complimento.
Anche l’Hotel Avion risente del peso degli anni e della storia minima che vi è passata, chissà quante storie potrebbe raccontare la vecchia moquette o quel tavolino ricavato da una vecchia Singer posto con gusto antico nel corridoio.
La stanza non sembra essere stata mai toccata dei primi anni settanta, è davvero old communis style, la tv è molto piccola e prende solo 5 canali, il letto essenziale, la mobilia d’epoca ma almeno non puzza di fumo e non è sporco. Anche nella stanza le informazioni sono tutte in ucraino e in slovacco.
Mi trovo in una sorta di enclave ucraina, come scopro la mattina guardando le targhe delle macchine nel parcheggio.
Senza volerlo sono già nel cuore della ricerca, della realtà dell’accoglienza dei rifugiati e del loro precario destino.
Nell’albergo non vivono solo anime in transito, si comprende che alcune delle persone che incrocio nei corridoi vivono questi ambienti nella quotidianità. Queste mura di periferia, quindi, in qualche modo sono anche un luogo di residenza e di speranza.
L’accoglienza in Slovacchia ha preso varie forme, e spesso sono stati i piccoli centri che hanno proposto modelli “sostenibili” di accoglienza e di residenza, come è avvenuto nel piccolo meraviglioso paese di Banska Stiavnica.
Modelli di integrazione: BANSKA STIAVNICA
Banska Stiavnica è una antica città mineraria il cui centro storico è ora patrimonio dell’UNESCO, con una popolazione di circa 10.000 abitanti. Una città immersa nel verde e nella pace dei boschi.
Sono stato attirato in questa piccola gemma architettonica, da un articolo trovato per caso sul web e dalla conferma della peculiare esperienza che l’articolo narrava, da parte della mia amica giornalista Vitalia Bella, del quotidiano Dennik.
Per le vie incredibili e imprevedibili che sempre caratterizzano le migrazioni, 150 rifugiati ucraini, quasi per caso, hanno scelto questa città fuori dalle rotte principali per trovare rifugio.
La scelta è avvenuta sulla base di una riflessione molto pratica.
Un paio di famiglie di Kharkiv, dopo aver tentato di sopravvivere prima a Lviv e poi, dopo il bombardamento dell’aeroporto della città della Galizia, cercato un rifugio in altre zone apparentemente “tranquille” del paese, si rendono conto di dovere con dolore, per forza di cosa, lasciare il paese e che i risparmi non consentirebbero loro di vivere dignitosamente in uno dei paesi più ricchi d’Europa, come Francia e Germania, terre che da sempre attirano migranti di varia provenienza.
E allora, come accaduto ad altre famiglie (si conta che siano finora 500.000 i rifugiati che hanno attraversato il suolo slovacco e 80.000 gli ucraini che hanno avanzato richiesta per l’Asilo Temporaneo) decidono di dirigersi verso i paesi frontalieri. Dapprima, come molti, pensano di tentare la sorte in Polonia, ma un bel giorno, Tatyana, una delle coraggiose donne in fuga, legge su un giornale che la Slovacchia è uno dei paesi più sicuri tra quelli confinanti con l’Ucraina.
Il viaggio di Tatyana e dei suoi parenti da Kharkiv a Kosice e poi da li a Banska Stiavnica è avventuroso. Arrivati in treno fino a Uzhgorod, città di confine a pochi chilometri da Vysne Nemecke, il primo villaggio in terra slovacca di cui vi racconterò tra poco, prendono un minibus che li porta oltre la frontiera. Da Vysne Nemecke con un bus si muovono verso Kosice e da lì ancora in bus verso Banska Stiavnica.
Dopo aver vissuto per qualche tempo in albergo, come nel caso dei rifugiati dell’Hotel Avion, ma loro sono stati più fortunati, si trattava di un albergo a quattro stelle molto elegante, nel tentativo di recuperare una certa normalità familiare, affittano un piccolo appartamento.
Ed è allora che hanno la fortuna di incontrare Martin Macharik, membro del consiglio della città e parte di una ONG che si occupa di integrazione. Martin e si suoi sodali hanno creato quello che hanno chiamato un “Integration Group” che li aiuta, attraverso corsi di inglese, slovacco e storia locale, ad integrarsi nella piccola comunità fino a farli sentire parte integrante del tessuto sociale.
Il problema più grande, per le famiglie di rifugiati, è stato, comunque, quello legato all’alloggio. Essendo Banska Stiavnica una città che vive prevalentemente di turismo estivo, non è stato difficile trovare alloggio per i rifugiati in inverno. Il problema, però, è nato quando hanno dovuto lasciare le case o gli alberghi all’inizio della stagione estiva (un po’ come è successo sulla costa romagnola la scorsa estate). Molti sono stati alloggiati in dormitori, mentre alcuni hanno trovato rifugio in alcune case messe a disposizione da privati.
Per favorire al massimo le possibilità d’integrazione, anche con offerte di lavoro, è stata creata una pagina Facebook e un gruppo, ed eventi culturali dove le famiglie ucraine potessero mostrare la loro cultura e le loro tradizioni.
L’esperienza di Banska Stiavnica, è stata anche oggetto di studio da parte della ONG Praxis Greece, che ha organizzato dal 27.08 al 04.09.2022, un seminario residenziale chiamato: Humanity has no border
Banska Stiavnica è stata ed è anche un punto di riferimento e asilo per artisti ucraini grazie a Banska Stiavnica Contemporary aderente alla rete internazionale.
Che Banska Stiavnica sia da sempre una città che mette l’amore al primo posto è evidente dalla presenza di un peculiare museo, la Dom Mariny (La Casa di Marina), dove visse Marina Pischlova, anche conosciuta come la casa dei Romeo e Giulietta slovacchi e che conserva il più lungo poema d’amore del mondo.
Sia come sia, in tutta la città sono evidenti i segni della “vicinanza” ai “cugini” ucraini, anche attraverso alcune prese di posizione abbastanza colorite.
Ma non mancano gli inviti a cercare una via verso la pace.
L’esperienza di Basnka Stiavnica è uno solo dei molti modelli in cui si è articolata l’accoglienza, l’asilo e l’inclusione sul territorio slovacco.
Un’esperienza similare a quella portata avanti a Banska Stiavnica è quella promossa dall’organizzazione SPOLU di Bratislava, di cui parlerò nel capitolo dedicato alla capitale slovacca.
Era ora però di approssimarsi verso il primo posto di confine e mancavano ancora molte ore di auto prima dell’arrivo al Motorest Milka di Ubla.
Se volete approfondire vi invito all’ascolto della prima puntata del reportage anche sul mio podcast “Il Balcanauta“: Verso il Confine: In Transito | Spreaker .